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lunedì 19 settembre 2011

Steam800 V.


V.


Il suo era stato il viaggio più lungo, stancante e… Gli aveva dato molto da pensare alla fin fine. Gear Wave Land, una città oltre i monti d’Oriente dell’URSS. Una piccola cittadina, dall’aspetto normalissimo… Vie parallele e perpendicolari, un sistema di comunicazioni semplice ed efficace. Pochissimi attrezzi a motore… Giusto qualche piccola locomotiva mercantile, ed agraria, ed in tutto si potevano ammirare qualche cavallo a sella a vapore e qualche albero Immortale. Gli alberi Immortali erano davvero rari, e al mondo se ne potevano contare pochi più di un centinaio. Degli alberi meccanici, rossastri ed arrugginiti, pieni zeppi di ingranaggi, pistoni e turbine sbuffanti fiotti di fumo smeraldino. Le fronde erano costituite da foglie metalliche, alle volte in bronzo, alle volte in stagno, alle volte in rame, con sfumature dal verde accesso al rosso sangue. Vivevano grazie agli oleodotti in disuso che avevano ormai rilasciato tutto il loro olio nel terreno e quindi ci si poteva tranquillamente aspettare di trovare uno di questi alberi nel bel mezzo di un canyon o di un deserto, come in Africa ad esempio, laddove dopo la quinta industrializzazione ormai di povertà non si poteva più parlare.
La loro utilità era sconosciuta a quasi tutte le persone presenti sul globo, tranne ad un gruppo di Folks chiamati Sumarai, e ad un gruppo di avanguardia ingegneristica, chiamato, Caschi Bianchi d’O9. Ogni anno gruppi sempre più cospicui si affrontavano per la supremazia ed il controllo sugli alberi, ma ormai nessuno quasi ci faceva più caso e si potevano tranquillamente notare, in pub, bar, taverne sperdute, due fazionisti opposti ormai in pensione prendere da bere e brindare insieme al loro futuro e al fatto che non gli avessero chiamati più ad uccidersi a vicenda.
Era così che funzionava da moltissime parti. I Folks venivano allontanati dalla gente comune nelle grandi città, ma nei piccoli paesini, lontani kilometri dalla civiltà, essi vivevano insieme come se nulla fosse, e i poteri di questi esseri venivano messi a disposizioni di quei piccoli centri abitati.
Gear Wave poteva contare una media di 3.000 abitanti di cui una decina di Folks, un centinaio di caschi bianchi e la parte restante di civili.
Una cittadina agricolo-commerciale, spensierata e senza problemi. Pur trovandosi in territorio Socialista, Gear Wave non era stata colpita dal periodo delle guerre, delle rivoluzioni Marxiste, e nemmeno dalle neo-rivoluzioni di ottobre e novembre. Era un bunker quella città, ed anche per questo motivo aveva visto aumentare il suo numero di abitanti, ogni anno del 15-17 per cento.


La lama ad ogni passo cigolava insistentemente nel fodero. Aveva una lunghezza di novanta centimetri, ma questo non era un problema del resto… Alex aveva una intelligenza fuori dal comune, una velocità impressionante ed una mira da brivido… John era capace di modificare qualsiasi sua parte del corpo, di dimensioni rendendola enorme ed alle volte meccanica… Slifer non era nulla senza la sua spada. Infatti, a differenza di quanti potessero pensare, e quindi provare a disarmarlo o roba del genere, rimanevano sempre sorpresi delle sue capacità.
La spada non poteva essere staccata dal corpo di Slifer a meno che lui non lo volesse o non la lanciasse e comunque una volta fuori il suo controllo non poteva essere usata da nessun altro se non da lui… Una bella capacità, anche se aveva molti difetti…
Un lungo cappotto perfetto stile vittoriano, pieno di bottoni e stringature in grigio scuro. Fin sotto le ginocchia. Dei pantaloni neri con bretelle e degli stivaletti a metà caviglia, del grigio sopracitato, un’antracite quasi.
I capelli lunghi stavano oscillando al vento e quasi sembrava intorno a lui esser calato l’inverno. D’improvviso…
Silfer era una persona fredda, con gli occhi color del ghiaccio, quasi bianchi con delle piccolissime pupille di una gradazione leggermente più accesa del celeste. Non che fosse austero… Indisponente… Solo che… Non aveva passato una vita del tutto facile, come del resto tutti i suoi compagni Folks di Londra.
Era stato rinchiuso in un monastero presso Trefford, in Hale Road, quando all’epoca era ancora tutta campagna.
Lo chiamavano deforme, storpio… Quegli occhi… E quella escrescenza per il fianco sinistro. Era stato definito un mostro, un aborto della società e così era stato mandato lì. “Le sorelle dell’ottocentesimo ingranaggio”, un nome particolare, per delle persone particolari… Del resto.
Crebbe isolato dal mondo, nessun contatto con l’esterno, una stanza buia, umida e maleodorante. Un piccolo letto, un giaciglio improvvisato per lo più, il tintinnio delle gocce insistente… Una piccola tazza in alluminio battuto scavata nel terreno, nella roccia, una bacinella con dell’acqua… Una scatola di legno a piè del “lavabo”, vuota del resto, ed una piccola bibbia, rilegata malamente e per lo più mangiata dalle tarme, quasi per metà… Anzi, una buona metà.
Isolato, mentre giorno dopo giorno continuava ad odiare sempre più quella strana protuberanza tubolare che gli pendeva per il fianco sinistro. Cercò disperatamente di strapparsela da dosso, ma più ci provava e più essa diveniva resistente. Giorno dopo giorno soffriva sempre più finchè, man mano ci fece l’abitudine fino al giorno in cui capì che, quella maledetta condanna, sarebbe divenuta anche l’unica chiave per la libertà, tanto sperata… Ogni notte, mentre il timido e gobbo Lampionaio passava ad accendere il lampione brillante fuori dalla sua finestra.
Una lama… Una maledettissima spada…
La tenne nascosta per anni quando un giorno…
Il Monastero delle sorelle dell’ottocentesimo ingranaggio, fu raso al suolo. Nessuna traccia di corpi, mura distrutte, terreni abbattuti… Nulla. Come se quel posto lì, non ci fosse mai stato.
Silfer scappò e si rifugiò a Londra, intento a cercar riparo. Fu uno dei primi… Fu accolto presto da William e la Mamma…


La direzione era stata scelta già da alcune ore di cammino, e non si voltò, né si fermò, mentre la gente stranita guardava attenta il forestiero. Fatto sta che lo trovò con facilità… Era enorme, possente, alberi così non ne aveva mai visti in vita sua, né a Londra né in nessun altro posto. Era abituato a viaggiare e molto spesso mancava dalla Mamma per mesi e anni interi addirittura.
Di un rosso ruggine tetro, smorto, lugubre, quasi tossico a vederlo da lontano. Pareva una di quelle vecchie cisterne di gas della vecchia industria oltre Flything Street. Una nebbiolina, quasi polvere, sottilissima, color amaranto e nero viaggiava tutt’intorno, tempestata qua e là da bagliori color verde smeraldo. Qualche ingranaggio, di notevoli dimensioni, ogni tanto spuntava dal terreno o dai possenti rami di lamiere e scarti ferroviari. Nessuna sapeva nulla di nulla di quegli alberi, nemmeno se nascessero così o meno, ammesso che qualcuno ne avesse visto nascere uno… Ecco… Nessuno.
Camminò per ancora qualche minuto, all’incirca una ventina scarsa, iniziò a scorgere delle figure tutt’intorno. Uomini alti e molto magri, orecchie lunghissime e a punta, facce e corpi ricoperti da un sottile strato di pelliccia, simile a quella dei gatti, ognuno di colore, diversa. Indossavano tutti quanti dei kimono o delle armature leggere in cuoio, o entrambe. Tutti portavano una coppia di katane a testa legate per un fianco, chi più lunghe chi più corte. Parevano agili. I loro movimenti però erano lenti e riflessivi, come se fossero stanchi… Avevano i capelli raccolti in code di cavallo alte, legate con dei nastri di vari colori e dimensione… Sumarai… Pensò subito Silfer, e ben presto i suoi pensieri, concordarono con la realtà effettiva.
Uno di essi infatti si avvicinò calmo e sorridente. Aveva il muso come quello dei felini, stesso naso e stessa bocca, per non parlare degli occhi e della pelliccia intorno alle guance e sul mento. I capelli erano lunghissimi e rossicci. Portava due normali ken, una katana ed un harakiri ken, un kimono grigio e bianco, una monospalla in cuoio e un pettorale in cuoio, oltre a cintura e schinieri sempre dello stesso materiale. La cosa particolare fu un’altra… Tutti, chi in una posizione del corpo chi in un’altra, avevano un ingranaggio di piccole dimensioni inciso a fuoco, sulla pelle.
- Salve! – esordì con una mano sull’elsa osservando la katana di Silfer.
Solo un cenno con la testa a mò di risposta, mentre il corpo seguì il movimento delle iridi scattando in avanti ed oltrepassando quella prima figura che ben presto non si fece attendere.
- Ehi! – Urlò più volte, poi si parò davanti a Silfer con uno scatto felino non indifferente.
L’altro lo osservò.
- Cerco il Sumarai di nome Tamahagane, e suo fratello Gassan… -
Un’altra volta lo oltrepassò, ma stavolta non si fece attendere l’uomo felino… Un sibilo leggero si sentì… Una spada stava uscendo dal fodero.
Silfer rise e tutt’intorno calò il silenzio. Tutti ad osservare, chi preoccupato e chi a scommettere, pronto a godere sulle disgrazie di uno dei due.
- Non lo fare…- Sussurrò il Folk.
L’altro non ascoltò e si lanciò urlando…
Pochi attimi e il Sumarai cadde in ginocchio con metà spada tra le mani. A qualche metro di distanza l’altra metà. Il ragazzo dai capelli argentati rifoderò la spada e continuò a camminare tra la folla.
La direzione era stata scelta, e non si voltò, né si fermò, mentre la gente stranita guardava attenta il forestiero.
Non si fece attendere un felinide con degli enormi denti a sciabola fuori dalla bocca, logori e consumati, spaventosi… Alto più di due metri e venti osservò per qualche attimo il ragazzo… Gli sorrise e gli rifilò una terribile pacca sulla spalla destra, alla quale non reagì.
Portava una grande armatura in cuoio, da vecchio shogun, dei capelli lunghissimi, enormi, sciolti lungo la schiena color cenere, e aveva dei grandissimi occhi dorati.
- Da questa parte Folk!- Urlò conducendo il giovane all’interno del grande albero, oltrepassata la grande porta di lamiere arrugginite e grandi ingranaggi.
Sbuffò del vapore, finchè i due non furono dentro.
Un stridere di leve e cingoli mal oleati, arrugginiti ed infiacchiti dal tempo fece vibrare paurosamente i sensi del ragazzo che non fece notare a nessuno il suo stato, mentre rifletteva a come i Sumarai sopportassero quel rumore, e a cosa ci potesse essere dentro quell’albero gigantesco.
Della nebbia riempiva quella, che dall’aspetto non molto riconoscibile, pareva una grande sala circolare, cilindrica, alta più di duecento metri. Corridoi a spirale salivano per tutto il perimetro di quella grande fabbrica, o almeno così capì il Folk, osservando le centinaia di persone affrettarsi, lavorare, sudare, sporcarsi e farsi del male, urlare, imprecare, osservare e sbuffare, osservando l’orologio che ancora segnava le dodici del mattino… La cupola era grande e lucente e quei corridoio a cielo aperto sembravano portare in un altrettanto grande stanzone… Osservò tutto con estrema attenzione, pensando ad ipotetiche vie di fuga nel caso in cui le cose si fossero messe male, e analizzando il fine ultimo delle attività di quelle persone, in fin dei conti pochissimi erano Sumarai, in quella specie di fabbrica. Fatto sta che attento e silenzioso seguì per i lunghi corridoi a spirale quel gigantesco essere dai denti a sciabola che presto non tardò a presentarsi.
- Il mio nome è Ludwig di Colonia piccolo Folk! –
Urlò, per sovrastare il rumore di metalli pressati e battuti, stridii di inceneritori e vari cingoli per il trasporto merci.
Silfer non rispose, si limitò ad osservare dritto dinnanzi a sé.
- Potresti almeno presentarti Londinese! Non credi? –
Urlò più forte Ludwig passando di fianco ad un inceneritore.
- Silfer…-
Fu la risposta, dopodiché tacque, continuando a guardare il sentiero dinnanzi a lui che sempre andava riducendo la distanza con quella grande stanza in cima.
- Silfer eh! Bel nome per un londinese! Pensavo che tra di voi ci fossero solo qualche John e Jack mischiati casualmente! –
Il leonino gigante rise a crepapelle, e notò una leggera risata malinconica al pronunciare il nome di John. Se ne accorse ma preferì tacere per il momento, senza sporsi troppo… Non era compito suo del resto.
I discorsi si interruppero e non molto lontani dalla grande soffitta, Ludwig si fermò porgendo il palmo ad indicare una piccola porta in legno.
- Puoi attendere qui finchè non sarai convocato…-
La mano pelosa, con sole quattro dita, scattò alla maniglia aprendo la porta e mostrando la stanza.
Silfer fece un inchino col capo ed entrò controllando che la porta dietro di lui non si chiudesse a chiave, bloccandolo all’interno. Non successe nulla. Nulla di nulla, mentre le glaciali iridi si scorsero intorno osservando un normalissimo, e alquanto strano, in quell’ambiente tanto austero all’eleganza, un piccolo salottino in perfetto stile inglese, con tanto di caminetto, tavolino, poltrone, sigarette, ed un intero servizio da tè già pronto per due persone.
Lo sguardo scattò di lato subito ed una mano all’elsa. Una tazza era fuori posto e fumava ancora.
Un cigolio lieve, quello della spada nel fodero mentre un uomo da una statura media osservava fuori da un piccolo oblò il paesaggio ammirabile da quell’altezza.
- Tranquillo…- Sussurrò mentre tra le sue labbra stava fumando una storta ed umida sigaretta. – Sto attendendo anche io come te un colloquio…-
Silfer si rilassò.
L’altro era un uomo normale all’apparenza. Dei lunghi capelli biondi fin sotto la nuca. Un paio di occhi azzurri. Un’armatura medievale da cavaliere, senza elmo ed una spada ed una daga, una per un fianco una per un altro, mentre leggero a tracolla ondeggiavano faretra e arco.
Stranito lo osservò con attenzione. Aveva un volto pulito, con un leggerissimo accenno di barba, semi rossiccia, ed una piccola cicatrice sotto l’occhio sinistro.
Il Folk si portò stanco in un angolo al quale vi si appoggiò delicato ritraendo una gamba a modi cavalletto. La katana strisciò il muro ed il rumore provocò la pelle d’oca al ragazzo…Un brivido lungo le braccia e lungo la schiena.
Il cavaliere tossì e si voltò andandosi a sedere ad una poltrona. Tolse prima arco e faretra. Poi daga e spada, posandoli di lato vicino allo scranno. L’armatura cigolo un po’, e per un attimo risplendette illuminata da un raggio proveniente dalla finestra.
Spense con delicatezza la sigaretta dentro ad un posacenere, e prese, piano, con paura, quasi di distruggere qualcosa, la teiera. Versò il tè in due tazze ed una la portò alle labbra.
- Avrei preferito del cappuccino e dei cornetti alla crema… Il tè mi fa schifo, ma è l’unica cosa che danno qui… -
Silfer non diede molto adito alle parole dell’altro e per tutto il tempo continuò a fissare la legna scoppiettare.
- Sono italiano…- Soffiò sulla tazza. – Mi chiamo Vandaro…- Fece una piccola pausa, sorrise.
- Italia poi… Parlo delle colonie del vecchio Re di Napoli, distribuite in tutto l’oriente ed il sud… Sono cavaliere di Suà Maestà, la Regina Clara De Schia…- Un sorso lungo per poi stringere i denti in una smorfia di dolore quasi, per il calore di quella bevanda. – Voi invece? Sareste? –
Silfer lo osservò impassibile. Non si mosse e rispose con sufficienza.
- Silfer… -
- Tsk… - Rumore gutturale di sdegno e impazienza, poi Vandaro sorrise. – Che nome del cazzo!-
Le labbra dell’italiano di portarono nuovamente alla tazza quando un sibilo tagliò l’aria e quest’ultima cadde per terra. Solo il manico rimase tra le mani dell’uomo che sgranò gli occhi e quello che poi potè sentire fu solo un rifoderare di spada. Sospirò.
- Non penso tu sia umano… - Poggiando il pezzo di ceramica sul tavolino.
- Avete al cospetto un lurido Folk… Né cavaliere, né regno, né colonie, né re e regine…-
Vandaro sgranò nuovamente gli occhi mettendosi a ridere. Poi tossì per qualche istante prendendo un’altra sigaretta dal tavolino.
Schioccò due dita ed una fiamma accese la sigaretta.
Silfer si stupì, ma non lo diede a vedere, sorrise solamente.
- Non sei l’unico ad avere dei doni ragazzo… -
Silfer stava per aprir bocca quando la porta si spalancò e vi entrò un uomo bassino dalla lunghissima barba, anch’egli un Sumarai. Anziano e posato su di una katana a modi bastone. Tossì un paio di volte ed osservò i due.
- Spero il soggiorno sia stato di vostro gradimento signori… - Osservò la tazza per terra. – A quanto vedo vi siete già presentati… Bene… - Sospirò. – Non dovrò faticare nel farlo io allora.-
Fece cenno con la mano di seguirlo. I due immediatamente si sollevarono discostandosi dalle loro postazioni e si posizionarono affiancati dietro al vecchietto, che con andatura molto lenta stava dirigendosi verso la grande sala circolare, sul tetto dell’albero.

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